31/08/2013

I falsi problemi della Sanità. Di Guido Giampietro


In principio erano il medico e l’ammalato… Un rapporto senza fraintendimenti. Un’intesa in cui erano chiari e distinti i ruoli di chi aveva il diritto e di chi aveva il dovere di giocare la partita della vita. La più importante tra tutte le partite. Poi le cose ˗ e non solo la terminologia ˗ sono cambiate senza quasi rendercene conto.
Il dottore, ai tempi dell’Italia del secondo dopoguerra, era il “medico di famiglia”. Cioè colui che, della famiglia, faceva parte a tutti gli effetti con la sola eccezione dello stato anagrafico. In quanto tale non era soggetto a orari che, più avanti, si sarebbero arricchiti dell’odioso aggettivo “sindacali”. Senza contare che per lui non esistevano nemmeno i giorni rossi del calendario: erano tutti rigorosamente neri, cioè lavorativi. E, in un tempo in cui il telefonino doveva essere ancora inventato, era sempre reperibile grazie alle care, vecchie cabine della SIP.

Ricordo quando il dottore ˗ immancabilmente nella tarda serata ˗ entrava nella cameretta in cui giacevo febbricitante a causa della cronica tonsillite adolescenziale che, barattata con qualche pastiglia, regalava però insperati giorni di vacanza scolastica.
Ricordo ancora il suo incedere nella stanza e le ombre ˗ disegnate dalla luce anch’essa malaticcia d’una lampada a saliscendi ˗ dileguarsi come le tenebre che fuggono inseguite dall’aurora. Nella mia fervida immaginazione di ragazzo quella figura rappresentava proprio il sole che, con il calore dei suoi raggi, avrebbe rinsecchito le tonsille esageratamente grosse. O forse era la febbre a farmi vedere il sole. Mi è rimasto sempre il dubbio!
Dopo l’accurata visita dalla cima dei capelli fin giù al mignolo del piede c’era il rito del lavaggio delle mani nel bacile smaltato e il loro lento strofinio con la salvietta di lino del corredo della mamma. Una scena di elevata suspense accompagnata dal silenzio trepidante dell’intera famiglia raccolta intorno a lui.
Poi, tra un sorso e l’altro d’un caffè sempre più freddo, un informarsi della vita di tutti i giorni. L’immancabile richiamo nostalgico alle traversie patite da capitano medico sul fronte albanese e finalmente, preceduta da una dettagliata esposizione verbale della diagnosi, l’accurata prescrizione dei farmaci sul ricettario.

Questo era il medico di famiglia! E quelli che curava in virtù d’una missione e non certo per dovere, erano gli ammalati.

Questo lungo incipit mi è servito per introdurre l’argomento letto qualche giorno fa sui quotidiani. Un articolo che ha contribuito ad accrescere il calore di questo supplizio agostano.
Ne hanno discusso per mesi e, alla fine, il pronunciamento è stato unanime: il paziente (l’ammalato d’un tempo) non esiste più. D’ora in avanti si chiamerà “persona assistita”. Questo è il nuovo termine introdotto nella bozza del codice deontologico che regola la professione dei seguaci di Ippocrate.
La Federazione nazionale degli ordini dei medici (Fnomceo) tornerà a esaminare questa indicazione nei prossimi giorni per poi approvarla definitivamente entro l’autunno. Dunque il testo, semanticamente aggiornato rispetto alla versione del 2006, abolisce la parola “paziente”. Tantomeno si potrà parlare di malato, ammalato, soggetto, individuo o cittadino. Ma solo di “persona assistita”.

Si riesce a cogliere la portata di questa rivoluzione copernicana?
Altro che Eraclito quando asseriva: “È la malattia che rende piacevole e buona la salute, la fame, la sazietà, la stanchezza e il riposo”. O Goffredo Parise con il suo incitamento: “Bisogna maltrattarla la malattia”. Qui il pensiero vola più in alto. Molto più in alto…
Le motivazioni sulla necessità del nuovo termine sono riassunte nel giudizio di Amedeo Bianco, presidente di Fnomceo e senatore Pd: la persona assistita “trasmette il significato immediato di chi ha diritto a ricevere cure e assistenza senza passività. Anzi deve essere più che mai al centro del sistema. È un cambiamento importante. C’è stato un ampio dibattito, non va considerato un esercizio accademico”.
Storce la bocca l’ematologo Franco Mandelli, una vita in corsia a combattere le leucemie: “Preferisco dire paziente perché si addice a un malato che deve avere pazienza nell’accettare le cure e aspettare di guarire. Il concetto legato ad assistito non mi piace perché si può avere bisogno di un medico ma non della sua assistenza. Penso ad esempio a chi ha un valore sballato di globuli bianchi e non ha necessità di restare in ospedale. Continuerò a esprimermi come sempre ho fatto”.

Prima di provare a digerire il nuovo termine di “persona assistita” c’è da chiedersi come mai gli ammalati, col tempo, siano diventati “pazienti”. Semplice: perché devono sopportare i disagi e le privazioni imposti dalla malattia, ma anche i tempi biblici che vengono prospettati per alcuni esami clinici. Non per niente “patiens” viene dal latino “patire, pati”, cioè chi soffre, ma anche chi sopporta…
Proprio come un tempo (ma forse anche oggi) quando si dovevano sopportare gli atteggiamenti di certi medici. Un capolavoro, al riguardo, è il dialogo presente nel racconto “La morte di Ivan Il’ič” di Tolstoj: “Vedete questo indica che nei vostri visceri accade qualcosa, ma se l’esame della tale e della tal altra cosa non lo confermasse, bisognerebbe supporre allora questo e quest’altro, in tal caso si potrebbe fare così…”. Ma il giudice Ivan Il’ič vuole solo sapere se potrà suonare la musica della speranza o quella della disperazione. Insomma, se camperà o morirà. Perciò incalza: “Ditemi dottore, in generale questa malattia è grave oppure no?”. E il medico, lanciandogli un’occhiataccia da sopra le spesse lenti: “Vi ho già detto, signore, quello che ritenevo utile e ragionevole che sapeste”.
Senza ricorrere alla prosa di Tolstoj vengono alla mente certe affermazioni a noi più vicine, del tipo “Lei faccia l’ammalato, il medico lo faccio io”…

Dunque questa innovazione delle “persone assistite” altro non sembra che un esercizio lessicale, un’acrobazia semantica, una banalità da perditempo. Qui non c’entra la dignità degli ammalati. Semmai la dignità bisognerebbe restituirla proprio ai medici di base che una burocrazia elefantiaca e baroccheggiante ha ridotto al ruolo di sedentari estensori di ricette! E al posto della “grande” invenzione delle “persone assistite” la Fnomceo farebbe meglio a preoccuparsi delle “baronie” che continuano ad imperare nelle Università e nei Policlinici.
Se proprio qualcosa bisogna cambiare nella terminologia del codice deontologico forse si potrebbe ritornare alla vecchia definizione di primario. Come afferma Roberto Lala, presidente dell’Ordine dei medici di Roma, “oggi sul camice veniamo identificati come dirigenti medici e il paziente, pardon, la persona assistita, fa confusione”.

Per concludere, chiamare persone assistite tutti quelli che si ammalano dà l’idea che per la società curarli sia un peso più che un dovere.
Perciò continuiamo a chiamarli malati gli ammalati.
Anche perché molti di loro guariscono e allora, non sono né pazienti, né assistiti.
Tornano a essere come tutti gli altri.

Guido Giampietro